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lunedì 26 maggio 2014

Le ciliegie della libertà, Alfred Andersch

Le ciliegie della libertà

Alfred Andersch

Mondadori (1958)




Il breve romanzo che Andersch scrive nel 1952 ed in cui riversa la narrazione di vicende biografiche profondissime ed intense, è anche il racconto dell’ esperienza umana e politica di quelle generazioni di giovani che passarono attraverso le due guerre mondiali. Andresch qui ci racconta la sua storia, una storia di dissidenza, una storia di diserzione.

Andersch nasce a Monaco nel 1914. Nonostante la famiglie simpatizzasse per idee nazionaliste, a diciott’anni lo troviamo giovanissimo, funzionario nell’organizzazione della gioventù comunista della Baviera meridionale. Dopo il crollo comunista del 1933 comportato dall’incendio del Reichstag e seguito dal discorso di Göring che diede inizio alle persecuzioni dei dissidenti politici, passò alcuni mesi nel campo di concentramento di Dachau. Una volta liberato, subirà un secondo arresto; in seguito a ciò, maturò una profondissima crisi spirituale che lo portò a sciogliere definitivamente i legami con la politica e a rifugiarsi in un personalissimo umanesimo intimista che infine lo condusse a contrapporre ai valori delle ideologie, principi di tolleranza ed umanità.

Andersch innanzitutto ci invita quindi ad una riflessione intorno al concetto di "massa", al rapporto tra massa ed individuo, sia dal punto di vista del consenso e da quello del dissenso: in entrambi i casi, sembra denunciare Andersch, ci troviamo di fronte a logiche del tutto analoghe che spingono gli uomini a ripudiare, a mettere da parte, il proprio libero arbitrio, la libertà di pensiero e di scelta, principi che andrebbero invece difesi con cura perché la storia sia scritta dagli uomini anziché dai capi di partito e da coscienze acritiche:

   “Allo stato totalitario risposi con la totale introversione”, racconta lo scrittore.

Andersch ci parla così in primo luogo di un sabotaggio culturale e morale dell’ideologia attraverso l’ “emigrazione interiore”, ciò che Kierkegaard aveva racchiuso sotto il concetto di “esistenza estetica”. Andersch cerca di recuperare dunque il senso della sua esistenza in ciò che "immediatamente è", rifiutando ogni vincolo ed impegno: lo scrittore ricerca la sua "eccezionalità tranquilla" nelle cose umili; diviene così impiegato in un piccolo ufficio ed in questa vita anonima e nascosta trova finalmente riparo dalla società, rifugiandosi ogni qualvolta ne sente il bisogno, nel sublime dell’arte e della poesia. L’esteta, che ha nel Don Giovanni di Mozart la sua rappresentazione esemplare, si propone quindi di rendere la propria vita una personale opera d’arte da cui è bandito il conformismo e nella quale, viceversa, trionfano le emozioni private. Tuttavia, con ben presto Andersch scopre, la vita estetica è destinata alla noia e al fallimento esistenziale. Infatti, vivendo attimo per attimo ed evitando il peso delle scelte (vale a dire, scegliendo di non scegliere), l’esteta finisce per rinunciare alla propria identità ed avvertire, con disperazione, il vuoto di un'esistenza senza centro e senza senso.

L’occasione per passare dalla scelta estetica a quella etica cominciò a profilarsi ad Andersch nel 1940 quando venne chiamato alle armi; l’esperienza nella Wehrmacht, la forza di difesa tedesca, lo strappò alla sua condotta di vita per gettarlo di nuovo nel corso degli eventi. Egli avvertì dunque l'urgenza di riflettere sull’importanza delle scelte etiche in un periodo in cui la scala dei valori morali, dentro e fuori di lui, appariva del tutto sovvertita.

“Non potevo amare i miei camerati perché amavo i compagni che da quelli erano stati uccisi e per i quali i miei camerati combattevano. Corrompendo il partito privarono di ogni significato la battaglia della mia giovinezza e mi costrinsero all’introversione. Vissi sulla barena dell’anima mia come stando seduto per anni sul vaso del gabinetto. Possedevo soltanto l’estetica dell’arte e la mia vita privata ed essi le distrussero con richiami e cartoline di precetto. Impugnare le armi per loro? Scaricare per loro il fucile contro i soldati di un esercito che forse erano in condizione di mutare la mia vita? La sola idea era un’assurdità”.
“Io, benché soltanto “singolo soldato”, possedevo “la visione così elevata” con la corrispondente responsabilità metafisica e anche razionale. E oltre a ciò il mio senso del deserto. Come Minerva dalla testa di Giove così uscì dalla mia testa l’idea della diserzione. Ossia, con altre parole, avevo deciso di tagliare la corda”.

La diserzione nasconde così sotto di sé un impegno etico e morale che lo scrittore assume nei propri confronti e nei confronti dell’umanità intera. Ciò gli consente di emigrare dallo stato estetico allo stato etico, quel momento cioè in cui l’uomo, scegliendo di scegliere, ossia assumendo in pieno la responsabilità della propria libertà, si impegna in un compito, al quale rimane poi fedele. La vita etica si fonda così sulla continuità che l’individuo afferma per sé e per il proprio compito. In altri termini, nella vita etica l’individuo si sottopone ad una "forma" o ad un modello "universale" di comportamento, che implica, al posto del rifugio in sé stessi, dell’eccezionalità, la scelta della "normalità" che, nel caso di Andersch, lo scrittore desidera ripristinare al posto dello stato di tirannia totalitaria che sfugge ad ogni ordine morale e civile.

La responsabilità della propria libertà che Andersch si assume decidendo di disertare, ci spiega lo scrittore, non è tuttavia una responsabilità eroica poiché eroe è chi guarda in faccia alla morte. La libertà che invece egli rivendica è piuttosto il diritto di potere distogliere lo sguardo dalla morte, affermando per questa via la propria possibilità di scelta, il proprio libero arbitrio. Ciò che allora Andersch ci descrive è piuttosto la potenza della propria paura di fronte alla morte e il suo irriducibile desiderio di vita. Ecco quindi l’impegno etico, l’impegno universale:

“Io ho descritto, perché devo descrivere la mia paura. La nostra paura. La paura che è in tutti noi e che non dobbiamo distruggere se vogliamo restare vivi”

Dunque Andersch, solo con la sua bicicletta ed il suo carico personale (in cui però risuona un'eco universale), si allontana dal battaglione attraverso la pianura toscana.

“Nella conca del versante successivo trovai un ciliegio selvatico carico di frutti maturi d’un rosso chiaro e vetroso. L’erba intorno all’albero era tenera e d’un verde serale. Afferrai un ramo e mi misi a cogliere le ciliegie. La conca era come una stanza: il rombo dei carri armati vi arrivava soltanto smorzato. Aspettino pure, pensai. C’è tempo. Il tempo è mio fintanto che mangio queste ciliegie. E battezzai le miei ciliegie chiamandole "ciliegie diserte", ciliegie da disertore, ciliegie selvatiche nel deserto della mia libertà. Ne mangiai un paio di manciate. Avevano un sapore fresco ed acerbo”.

Qui trovate la recensione sul mio canale You Tube:Le ciliegie della libertà, Alfred Andersch

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