Cerca nel blog

giovedì 15 maggio 2014

Elogio dell'imperfezione, Rita Levi-Montalcini

Elogio dell’imperfezione

Rita Levi Montalcini

Garzanti (1987)

 

“Mai avuto l’abitudine, né me ne pento, di scrivere appunti e di redigere un diario. Se infatti la memoria non ha registrato in modo indelebile un evento, è inutile e superfluo tentare di farlo rivivere attraverso la sua documentazione scritta. Il fatto stesso di scrivere un diario determina, sia pure inconsciamente, una deformazione dell’esperienza vissuta derivante dal desiderio di servirsene, per rivivere in vecchiaia quel dato momento, e farne parte ai discendenti o addirittura, se si è molto vanitosi, nella speranza di far partecipi i posteri delle proprie esperienze.”

Così scrive Rita Levi Montalcini nella sua autobiografia edita nel 1987 dunque appena dopo avere ricevuto il Premio Nobel per la medicina che gli era stato assegnato grazie alla scoperta del Nerve Growth Factor, il fattore di crescita delle cellule nervose. Rita all’età di quasi ottant’anni affida quindi il racconto alla memoria, proponendo così ai lettori un magnifico viaggio attraverso la sua vita.

Le preziosissime e delicatissime pagine di questa autobiografia -che andrebbe letta e riletta- escono dalla penna di una donna dolcissima che, tenendoci per mano, ci parla con toni umili e tuttavia precisi ed sicuri, di una vita ricca di riconoscimenti ma non per questo facile. La storia che ci narra Rita non riguarda solo -non riguarda principalmente- l’evoluzione della sua carriera e le vicende che la condussero ad importanti scoperte scientifiche: il suo racconto è innanzitutto la storia di una donna a cui è capitato nascere in un mondo di uomini: “L’esperienza del ruolo subalterno che spettava alla donna in una società interamente gestita dagli uomini", scrive Rita, "mi aveva convinta a non essere tagliata a fare la moglie: non mi attraevano i neonati ed ero del tutto priva del senso materno tanto sviluppato nelle adolescenti e nelle bambine”; ed è, in secondo luogo, la storia di una donna ebrea che visse nell’Italia fascista.

Rita nasce in una famiglia molto colta e liberale che appoggia le scelte e le inclinazioni dei quattro figli: Gino, Anna, Rita e della gemella Paola che diverrà poi una famosa pittrice.
L’avventura di Rita comincia, così, dopo le scuole all’Università di Torino a cui si iscrisse con il supporto e la fiducia di entrambi i genitori e di questa esperienza ci offre un racconto incalzante, lucidissimo e vibrante di emozione. Racconta con grande trasporto del rapporto e poi della profondissima amicizia con il maestro, il Professor Giuseppe Levi, che inizialmente mostra poca stima e fiducia nella nuova allieva apparentemente così piccola e fragile. Ci racconta della grandissima amicizia con Renato Dulbecco, suo compagno di corso che a sua volta riceverà, nel 1975, il Premio Nobel per la medicina. E ci racconta del rapporto con il fragile Tullio Terni, primo tra i discepoli di Giuseppe Levi e suo grandissimo amico: Terni che era professore di Anatomia all’Università di Padova, nel 1946 viene radiato dall’Accademia dei Lincei per la condotta mantenuta durante il regime fascista a cui aveva però aderito, racconta Rita, non in quanto socio di partito ma, come molti professori, con leggerezza, per tutelare il suo lavoro. Levi che, al contrario di Terni aveva rifiutato il giuramento, scelto l’esilio e la clandestinità,  ripreso il suo posto nell’Accademia dei Lincei, sentì di dovere procedere nei confronti dell’amico senza alcuno sconto. Terni, già  depresso, una volta ricevuta la notizia, racconta Rita profondamente commossa, si suicidò -era il 25 Aprile 1946- con una fialetta di cianuro che si era procurato da sé e per i suoi cari nel caso in cui l’Italia fosse stata invasa dai nazisti.

Rita ci racconta anche della sua esperienza tra i profughi di guerra che cominciò nell’autunno del 1944 e concluse nell’inverno del 1945 tra la popolazione sfollata delle alture tosco-emiliane. Proprio in seguito a questa esperienza capì che non avrebbe mai potuto dedicarsi alla professione medica vera e propria: troppo infatti era il dolore causato dall’impotenza della medicina di fronte alla sofferenza delle vittime di guerra che Rita non riuscì mai a vivere se non con empatia e partecipazione.

E naturalmente Rita racconta di cosa aveva significato per lei e per la sua famiglia -di origine ebrea ma non praticante- vivere sotto il fascismo e come ciò inevitabilmente incise sulle sue attività e sui suoi studi. Trascina il lettore fino in fondo allo scoraggiamento disperato che la colpì quando capì che non avrebbe mai più potuto accede alle aule dell’Università ed ai suoi laboratori, per di più proprio in un momento cruciale per le sue ricerche; eppoi lo abbraccia, quando ricorda come amici e colleghi la spronarono a continuare, a costruire un piccolo laboratorio clandestino nella sua camera...cosa che non sarebbe stata possibile senza l’aiuto della madre e della gemella Paola.

Il resto è storia: sappiamo che Rita nel ’47 emigrò negli Stati Uniti con Dulbecco per poi tornare in Italia negli anni ’60 dove diresse il Centro di Ricerche di Neurobiologia del CNR presso l’Istituto Superiore di Sanità grazie a borse e finanziamenti per la maggior parte provenienti dall’Istituto di biologia della Washington University. Nel 1986 ottenne il Premio Nobel per la scoperta del Fattore di crescita delle cellule nervose che gettò le basi per la cura di malattie come la SLA ed l’Alzehimer; divenne naturalmente membro dell’Accademia dei Lincei e, nel 2001, senatrice a vita dello Stato italiano.

Tutte queste cose le sappiamo, o le dovremmo sapere e l'interesse del libro, io credo, sta solo in parte nella ricostruzione della carriera di questa magnifica donna e grandissima scienziata. Il libro di Rita è innanzitutto un libro d’amore verso le persone che hanno incrociato la sua strada o vi hanno sostato per un po’; è un libro di dedizione e di umiltà; ma soprattutto è un libro di resistenza in cui risuona l’eco continua di una potenza indicibile e strabordante ma, insieme, gentile e discreta.
Il senso dei ricordi di Rita emerge bene nell'omaggio che dedica a Primo Levi a conclusione del suo racconto, ricordandoci che “quando il bene cede al male, ne è assediato ed infine sommerso, bisogna riuscire a sopravvivere in piccole isole grottesche, con un’ordinata vita familiare, l’amore per la natura, un moralismo vittoriano”.
“La disparità evolutiva tra le facoltà intellettuali e quelle emotive dei nostri congegni cerebrali sono la conseguenza di processi biologici dei quali non siamo responsabili”, scrive Rita, “e tuttavia, accanto a milioni di individui che portano le stigmate di questa disarmonia ce ne sono migliaia in tutti i tempi che non si sono arresi ed hanno mantenuto accesa la fiaccola della speranza che ha fatto luce ai loro compagni di sventura”.

Qui potete trovare la recensione sul mio canale you yube: Elogio dell'imperfezione, Rita Levi-Montalcini





Nessun commento:

Posta un commento