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lunedì 2 giugno 2014

Mozart in viaggio verso Praga, Eduard Mörike

Mozart in viaggio verso Praga
Eduard Mörike
Passigli Editori (1990)





Della vita di Mörike (1804/1875) oggi diremo proprio poco. Ci basta ricordare che,a parte qualche breve viaggio nella Baviera, nel Tirolo e in Svizzera, passò i sett’antanni della sua esistenza nella natia Svevia. Studente di teologia a Tubinga, poi vicario in una piccola cittadina ed infine parroco, dal 1851 divenne insegnante di letteratura in un collegio femminile di Stoccarda.
Nel 1855 scrive la sua opera più famosa, Mozart in viaggio verso Praga che Ledislao Mittner definisce “la novella più bella di tutto l‘800 tedesco”.

Oggi vorrei usare una storia per introdurre questo racconto. Ed è una storia antica, che risale fino alle Storie che Erodoto scrisse nel corso del 400 ac in cui, tra altre, ci narra di Cleobi e di Bitone. Cleobi e Bitone erano i figli di una donna molto devota ad Era che, in occasione della festa in onore della dea, desiderava ardentemente recarsi nella città di Argo per partecipare alle celebrazioni. La donna che pur era provvista di un carro su cui viaggiare, non possedeva però la coppia di buoi necessaria a trainarlo. I figli così, dotati di grandi capacità fisiche, si offrirono alla madre per trainare il carretto percorrendo la distanza di quarantacinque stadi. La donna piena di gioia e gratitudine verso i figli, una volta giunta ad Argo, domandò ad Era che cedesse in dono ai figli la sorte migliore che potesse capitare ad un uomo. Accadde così che dopo il banchetto ed i festeggiamenti, i due giovani si addormentarono nel santuario per non svegliarsi mai più.



Il mito raccontato da Erodoto ci narra così di uno dei capisaldi della sapienza greca secondo cui la magnificenza dell’istante implicata dal suo lento morire, l’altezza dei sentimenti umani provati innanzi ad esso, non possano che essere pagati con la morte, la quale ne conserva, in un presente eterno, la bellezza e la bontà. Il mito di Erodoto ci parla proprio della sapienza umana insomma di chi ha compreso la “grazia” e la bruciante disperazione della condizione umana. L’eco profonda e perturbante di questo mito, l’impossibilità di sopravvivere ad un momento di perfetta gioia se non al prezzo d’accettarne la morte, risuona forte nella novella di Mörike.

Nell’autunno del 1787 Mozart, accompagnato dalla moglie Konstanze Weber, parte alla volta di Praga in cui è in programma la rappresentazione del Don Giovanni. Il terzo giorno di viaggio, intorno all’ora di pranzo, i coniugi Mozart si fermano in una locanda per ristorarsi un poco. E mentre Konstanze chiede un letto su cui riposare un’oretta, Mozart, in attesa di sedersi a tavola, decide di passeggiare nel parco che si estende vicino. Seguendo il vivace mormorio di un getto d’acqua, in breve giunge in uno spazio costeggiato da un aranceto. Il placido gorgogliare della fontana, la piacevolezza del posto e un’arancia dorata che sembra offrirsi a lui spontaneamente, gli fanno tornare alla memoria i viaggi in Italia, e in particolare una favolosa serata musicale sull’acqua cui assistette a Napoli. Immerso nel ricordo, quasi senza accorgersene allunga il braccio e stacca l’arancia dal ramo. Il tempo di incidere con un coltellino la polpa del frutto, ed è apostrofato ruvidamente dal giardiniere che, scambiandolo per un ladruncolo, gli intima di seguirlo dal signor Conte per rispondere dinanzi a lui del furto.

Segue una spassosa commedia degli equivoci degna de Le nozze di Figaro: il Conte, informato dell’accaduto, sta già montando su tutte le furie quando la Contessa, leggendo la firma vergata in calce a un biglietto che Mozart aveva pregato di recapitare ai padroni di casa, si avvede dell’equivoco, placa l’iracondo consorte e trasforma, con intelligenza tutta femminile, l’imprevisto in una occasione per rendere indimenticabile la festa di fidanzamento di sua nipote Eugenie, grande ammiratrice di Mozart e ispirata interprete di tante sue Arie.
Quello che viene dopo – il banchetto, il ricordo del soggiorno napoletano (vera e propria novella nella novella), il terzetto improvvisato da Mozart insieme al Conte e al fidanzato di Eugenie, le chiacchiere delle dame sotto il pergolato e quelle degli uomini attorno al tavolo da bigliardo – è il racconto, come dicevo, di un giorno perfetto, al quale gli dei non consentono di sopravvivere. Su questo clima di sorridente pace e di festoso abbandono ai piaceri della vita incombono, infatti, presagi di morte.

Verso la fine della serata, cedendo alle insistenti richieste dei suoi ospiti, al pianoforte Mozart esegue in anteprima la scena finale del Don Giovanni, quella in cui il cavaliere avido d’avventure si prende gioco dell’invito del Commendatore a ravvedersi e sprofonda nella tomba tra le grida giubilanti di diavoli e di lemuri.
Quando Mozart finisce, l’emozione suscitata è così profonda che per qualche minuto nessuno osa rompere il silenzio generale. Infine, con il fiato ancora trattenuto, la Contessa gli chiede di dare al pubblico almeno un’idea dello stato d’animo con cui aveva composto quella sublime e insieme terrificante pagina musicale. «Quasi ridesto da una lunga fantasticheria», Mozart risponde:

 «Veramente, alla fine mi girava un poco la testa. Quel dibattimento disperato, fino al coro degli spiriti,
l’avevo buttato giù di getto […]; dopo un attimo di riposo mi recai nel salottino […] Ma un’idea mi
attraversò la mente e mi inchiodò in mezzo alla stanza. […] Mi dissi: “Se tu morissi stanotte e fossi
costretto a sospendere qui la tua partitura? Potresti trovar riposo nel sepolcro?” Fissavo lo sguardo sul
lume della candela che reggevo nella mano e sui rigagnoli di cera liquefatta. Mi sentii invadere da un
male a quel pensiero […].»

Per Eugenie – dopo Amadeus il personaggio più riuscito della novella, sospeso com’è tra l’incanto della giovinezza e la paura di non saper trovare il modo di andare sicura nel torbido dell’età adulta – le parole di Mozart sono la conferma che

 «quell’uomo fulmineo e instancabile andava inesorabilmente consumandosi nel proprio ardore; che egli
sarebbe stato soltanto una fugace meteora su questa terra, impari alla lotta col suo strabocchevole genio.»

Nell’ultima pagina la novella di Morike raggiunge accenti di autentica poesia. Il giorno dopo,
passando per la grande sala superiore appena rimessa in ordine, Eugenie si arresta accanto al pianoforte:

 «Colui il quale solo poche ore avanti vi si era seduto, le apparve come in un sogno! A lungo considerò
pensosamente la tastiera ch’egli aveva toccato per ultimo, poi chiuse l’istrumento e ne tolse gelosa la
chiave, affinché una mano estranea non potesse riaprilo troppo presto.»

Lo scatto della serratura che chiude il pianoforte ricorda il tentativo faustiano di fermare gli attimi belli. Anche la grande musica mozartiana sa che i «bei momenti» sono transeunti, ma a differenza di Faust è felice di incarnare, sia pure per pochi istanti, il ritmo di questo eterno fluire. Essa conosce bene l’angoscia, la mutilazione, la lacerazione, ma non ha bisogno di spezzare la melodia del suono per ridirla. La grande sala pulita dai domestici non conserva più alcuna memoria dei «bei momenti» di appena poche ore prima, eppure vivere significa anche superare l’immane violenza di quelle pulizie, pur necessarie. O forse la miglior  sorte che sarebbe potuta accadere agli ospiti del Conte e della Contessa sarebbe stata quella di non svegliarsi più, come avvenne per Cleobi e Bitone. Ma forse è altresì vero che mai si può apprezzare la festa come l’indomani, quando le luminarie sono ormai spente e i coriandoli
sono stati spazzati via dal pavimento.
Tutto si affretta alla sua fine. Con lucidità implacabile e con tristezza pudicamente taciuta, la musica di Mozart non dimentica lo scacco che incombe su ogni esistenza, ma nello stesso tempo aderisce al proprio destino, guizza nell’inestricabile assurdo, alza un sublime canto d’amore all’armonia di ogni giorno, a quella capacità – tutt’altro naturale – di sentirsi appagati per ciò che rende incantevole e irripetibile lo scorrere del tempo, quale può essere un’arancia colta furtivamente da un giardino, o un buon bicchiere di vino rosso, o una partita al bigliardo, o dei pettegolezzi scambiati sotto una pergola in una tiepida sera di inizio autunno. Per questo nessuno è più grande di Mozart: egli è il sommo veggente dell’anima e il sommo veggente del corpo. Per questo che la sua musica è essenzialmente tragica, intendendo con questo aggettivo una visione integra della vita, l’intuizione di un significato ultimo capace di ricapitolare in sé anche la più brutale delle dissonanze.

Il Mozart di Eduard Morike è figlio del migliore Illuminismo. Lo stesso castello dove si svolge il racconto è avvolto da una soave allure settecentesca, fatta di conversazioni brillanti e di ritrosa festevolezza, di arguta bonomia e di serena coscienza delle cose del mondo, di galanti minuetti e di aggraziati rondò. Ma questa cornice, senz’altro aristocratica, anziché disfarsi in melassa edificante, esalta come meglio non si potrebbe l’amabilità della vita proprio come accade nel Don Giovanni di cui, questa breve novella, sembra incarnare l’anima ed il significato. Del resto, facile è ritrarre la disarmonia del mondo attraverso l’urlo scomposto. Pertanto, la perfetta proporzione geometrica della musica mozartiana – di una bellezza assoluta, ma aliena da ogni sfruttamento estetizzante – deve essere considerata come una delle più radicali forme di resistenza che siano mai state praticate dall’uomo contro la selvaggia demonicità della morte.

Vi lascio con l'intensissimo duettino tra Don Giovanni e Zerlina, tratto proprio dal Don Giovanni, che a mio parere esemplarmente restituisce il senso profondo di tutte queste parole.  "La ci darem la mano", Don Giovanni e Zerlina (La Scala) 



Qui infine trovate la recensione sul mio canale You Tube: Mozart in viaggio verso Praga, Eduard Mörike

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