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giovedì 10 luglio 2014

Cinque memorie sull'istruzione pubblica, Jean-Antoine de Caritat (Marchese di Condorcet)

Cinque memorie sull'istruzione pubblica

Jean-Antoine de Caritat, marchese di Condorcet 

(1791)


"La cultura è l'unica arma di riscatto" (Scampia, Napoli)

«In generale, qualsiasi potere, di qualunque natura esso sia, quali che siano le mani in cui è riposto e in qualunque maniera esso sia stato conferito, è naturalmente nemico dei lumi. Talvolta lo si vedrà adulare i talenti, quando questi si abbassano a divenire lo strumento dei suoi disegni o della sua vanità; ma chiunque farà professione di cercare la verità e di affermarla sarà sempre odioso a chi esercita l’autorità».

È davvero un formidabile paradosso incontrare una simile affermazione nel bel mezzo di un progetto politico-filosofico sull’istruzione pubblica, un progetto che chiama proprio il potere politico a garantire, diffondere e organizzare l’istruzione di tutti i cittadini; che esige, in altre parole, dall’autorità la distribuzione universale degli strumenti che consentono di proteggersene o addirittura di negarla. Non è il solo felice paradosso che attraversa le pagine delle «Cinque memorie sull’istruzione pubblica», date alle stampe nel 1791 da Marie Jean Antoine Nicolas de Caritat, marchese di Condorcet, ma è forse quello più decisivo, ardito ed anticipatore di tutta una tradizione di pensiero critico che indaga il rapporto tra potere politico ed autonomia del sapere, tra «volontà generale» e libertà dei singoli, tra le norme e la capacità individuale di giudizio.

Le «Cinque memorie» di Condorcet, che nella forma di un progetto istituzionale racchiudono un’agenda teorica tra le più avanzate e acute, ci restituiscono nitidamente, la complessità e l’articolazione di una elaborazione critica tanto radicale quanto solida. Ben poche delle idee correnti sulla formazione e sulla sua riforma, sulla funzione della scuola e sui suoi rapporti con la società, sul bene pubblico e sulla libertà dei singoli, sul sapere e sulla produzione della ricchezza, reggerebbero al vaglio di questo potente strumentario concettuale elaborato più di due secoli fa, negli anni appassionati e tumultuosi della rivoluzione. Se oggi scelgo di riproporle non è semplicemente per rendere omaggio a un classico dimenticato o confinato nella marginalità, per restaurare un capitolo bistrattato di storia delle idee o per rivitalizzare gli studi sul Secolo dei lumi, ma per arricchire un arsenale (diciamo quello delle armi della ragione) da impiegare nel conflitto decisivo che si sta giocando sul terreno della formazione e della trasmissione del sapere per il controllo sulla cooperazione sociale (che è oggi essenzialmente cooperazione di saperi e conoscenze).


Condorcet, eletto alla Convenzione nel 1791, cadrà presto vittima del Terrore. Vicino ai girondini, (arrestati nel giugno del 1973), è catturato, dopo diversi mesi di latitanza, nel marzo del 1794 a Clamart. Muore, suicida o di stenti, nella prigione di Bourg- Egalité, il 29 marzo, subito dopo il suo arresto e prima di essere trasferito a Parigi. Ma non è tanto una appartenenza di fazione, peraltro piuttosto lasca, quanto il sostanziale radicalismo democratico delle sue posizioni a porlo in rotta di collisione con Robespierre e con la politica del Comitato di salute pubblica. 


Condorcet è un nemico dichiarato dell'assolutismo astratto del potere, contro cui cerca di elaborare tutti i possibili antidoti legislativi. La «volontà generale» come potere costituito legittimato dalla delega-rinuncia dei singoli, come confluenza delle volontà particolari in un destino comune che le sovrasta, gli è invisa. Non gli sfugge la stretta parentela tra la «volontà generale» di stampo rousseauviano, in cui il popolo troverebbe la sua unità e la sua espressione, e il pactum subiectionis che fonda lo stato assolutista. Ogni autorità deve, a suo parere, sottomettersi perennemente al tribunale razionale della verità e dell’errore. Ma questo tribunale non è presieduto da un’idea astratta di Ragione resa oggetto di culto, o, peggio, da un corpo di verità dogmatiche stabilite dalla tradizione e dai suoi custodi: esso consiste piuttosto in un processo concreto, immanente, che vive e agisce attraverso il giudizio critico della generalità delle singole persone, che si accresce, si trasforma e si rinnova nella loro interazione. Le persone, questo in sostanza il nucleo concettuale sotteso alla posizione di Condorcet, non possono mai essere espropriate dei loro diritti naturali, né del diritto di giudicare di volta in volta e di rimettere in questione l’autorità costituita e il suo principio di legittimazione. 


L'universalismo antidogmatico e autoriflessivo, che poggia sull’«amore per l’umanità» e sulla pretesa di una giustificazione razionale delle scelte e delle azioni, si configura così come un sostrato, un patrimonio comune, capace di articolarsi, in virtù della sua stessa generalità e della sua aspirazione alla verità, nel giudizio autonomo dei singoli, il quale, a sua volta, sarà posto a fondamento di un governo razionale della cosa pubblica. Questo presupposto prende forma concreta nell’idea di «istruzione pubblica» e nel suo contrapporsi, immediatamente ed esplicitamente, all’idea giacobina, ma non solo, dell’«educazione nazionale», con i suoi miti spartani, la sua soffocante ritualità laica e il suo feroce conformismo patriottico, che prevarrà dopo il 1793 per volere di Robespierre. Istruzione contro educazione; pubblico contro nazionale: questi i termini di una contrapposizione che merita di essere giocata fino in fondo. Trasmissione di un sapere razionale e degli strumenti della critica, contro l’integrazione dei singoli in una comunità organica predeterminata, con il suo sistema di valori e i suoi stili di vita. «Pubblico», inteso come condivisione delle risorse e delle possibilità, come immanenza dei diritti che conferisce una base concreta all’autonomia dei singoli, contro «nazionale», inteso come appartenenza e identità, come sacrificio e dedizione, come precetto dell’amore per l’ordine costituito. 


È propriamente questa idea di «pubblico», che sebbene investa lo stato del compito e del dovere di garantire a tutti i suoi cittadini l’istruzione, esclude non meno decisamente che questa rivesta qualsivoglia carattere statale. Poiché è nella sfera pubblica, nel confronto e nell’interazione dei giudizi razionali, resi possibili dalla diffusione del sapere, che il Politico trova il suo fondamento e la sua legittimità, sempre reversibile. Senza questi lo stato stesso diverrebbe illeggittimo, arbitrario, prevaricatore. Ma, paradossalmente, solo lo stato con le sue leggi può garantire il carattere non statale dell’istruzione. Può garantire, insomma, l’autonomia della conoscenza dal potere politico che così, di quest’ultimo, può divenire, al tempo stesso, giudice e fondamento, critica e legittimazione. La sfera pubblica non è il bene comune, ma quel luogo nel quale del bene comune si può giudicare e, così facendo, produrlo. Nessuna entità sovradeterminata ne è depositaria, né per diritto divino, né per delega terrena.
Ma Condorcet si guarda bene dal concedere allo stato il monopolio dell’istruzione ( e gli nega esplicitamente ogni interferenza nell’educazione, che riserva piuttosto alla famiglia). All’istruzione privata deve essere consentito di competere con quella pubblica, come alternativa, stimolo e termine di paragone. Ma non si può affidare all’interesse particolare, a una libera scelta, a una valutazione contingente di opportunità, il compito di assicurare ciò che sta a fondamento stesso del vivere collettivo secondo ragione, né la dimensione egualitaria che necessariamente gli si accompagna. Non si può pretendere che la famiglia impartisca una educazione «non familiare», né che una istituzione privata offra una istruzione «non privata». Solo lo stato può garantire, attraverso una complessa architettura di leggi e contrappesi, una istruzione «non statale» (naturalmente può fare -come qui in Italia sappiamo bene- anche l’esatto contrario).


Ma se il potere pubblico non può delegare né alla famiglia, né all’iniziativa dei privati un elemento che è costitutivo della possibilità stessa di una Repubblica, quale l’istruzione, esso dovrà nondimeno accettare, nella sua configurazione, il condizionamento e in parte la guida di quei settori della società che producono, conservano e accrescono autonomamente il sapere. Di quella che oggi chiameremmo la comunità scientifica. Il potere pubblico non produce sapere, né è in grado di giudicarne la verità o l’importanza, di valutare le competenze e i talenti. Questo compito spetta allora alla comunità degli studiosi, ai cultori delle scienze e delle arti.




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