TRISTAN
THOMAS MANN
Mondadori (1970)
Il Tristan, che Thomas Mann scrive nel 1902, è narrazione di tante storie tra cui, affianco a vicende descritte ed al taglio interpretativo che liberamente possiamo decidere di assegnarvi, troviamo considerazioni critiche e storiografiche, ipotesi possibili sul posto che il racconto occupa nella produzione di questo importante scrittore: penso naturalmente alla relazione con il capolavoro “La montagna incantata” a cui questo brevissimo racconto sembra essere timido preludio; ma penso anche al rapporto che esso intrattiene con l’ omonima opera musicale scritta da Wagner. Vorrei lasciare qui tuttavia da parte la complessità esegetica ed interpretativa, eppure interessantissima, che senza dubbio incornicia questo racconto meraviglioso per soffermarmi su una sola di queste storie, una storia dolcissima ed umana.
Il Tristan, vorrei dirvi allora, mi sembra innanzitutto la storia di un amore impossibile. Che la logica narrativa a cui fa capo il racconto sia proprio quella in cui si svolgono gli amori impossibili, lo capiamo dalle primissime pagine quando Gabriella Eckhof, moglie del commerciante A.C. Klöterjahn, incontra lo scrittore Detlev Spinell, entrambi ricoverati presso il sanatorio “La Quiete”. I toni di quest’incontro sono quelli inizialmente soffici, delicati e tuttavia percettibilmente potentissimi, che si dischiudono ogni qualvolta l’immaginario letterario ospita ed avvicina creature complementari e che, nel corso della narrazione, si appropriano progressivamente dei colori straboccanti, folgoranti di un destino drammatico e tuttavia ineludibile, inscritto in un’appartenenza a cui non si può sfuggire.
“Stamattina, facendo la mia passeggiata”, diceva Spinell, “ho visto una donna bella…Dio, se era bella!”. E, piegando il capo da un lato, divaricava le mani. “Davvero, signor Spinell? Me la descriva , via!”. “Oh no, è impossibile. Non potrei dargliene un’immagine precisa. L’ho soltanto sfiorata con lo sguardo, mentre passava: in verità, non l’ho neppure vista. Ma quell’ombra fugace che ho scorta è bastata ad accendere la mia fantasia e a permettermi di recare con me una visione di assoluta bellezza…Ah, che bellezza!”.
La sua interlocutrice rideva: “E’ questa, signor Spinell, la sua maniera di guardare le belle donne?”. “Sì, signora; e non è certo migliore l’avvolgerle di un’occhiata brutale, ghiotta di verità, per riportarne poi un’impressione di materia difettosa. Solo un viso io conosco del quale sarebbe peccaminoso voler correggere con la mia immaginazione la realtà: un viso che vorrei osservare, sul quale vorrei soffermarmi non per minuti né ore, ma per l’intera vita, e perdermi tutto in esso e dimenticavi ogni cosa terrena…”.
Spinell stringe così amicizia con Gabriella ed in questo affiancamento graduale e penetrante le parole ci sembrano avere davvero un ruolo ed una funzione fondamentale: l’incontro, la comunione, la condivisione del sentire tra Gabriella e Spinell ha luogo proprio attraverso il medium dell’espressione che sinora lo scrittore, come Mann ci racconta, era riuscito ad incarnare malamente in un’opera mediocre, “interessante, sì…ma mortalmente noiosa”. Di fronte a Gabriella la parola perde d’improvviso la complessità comportata dalla sua natura virtuale, la forza potenziale ed inespressa, la sfuggevolezza, per divenire invece dardo infuocato, naturalmente e spontaneamente capace di tessere in modo precisissimo per la donna, come accade in letteratura, una realtà diversa, collocata al confine tra arte e poesia, entro cui ella possa poi trovare rifugio e, così, sé stessa. Spinell trasporta Gabriella per questa via in quella dimensione ideale -quella etica e morale dell’arte e della poesia, come dicevamo-, in cui egli vede originare la bellezza della donna, una bellezza evidentemente non semplicemente estetica ma “narrativa”, in tal senso totalizzante. E’ proprio in questa dimensione -del tutto dimentica del reale -, che egli può dar voce alle leggi purissime di un bisogno comune: quello cioè di provare a riscattare le brutture della realtà di cui anche Gabriella è prigioniera -e che di fatto Spinell crede causarne la malattia-, attraverso lo sforzo sovrumano d'affermare in essa l’incontrovertibile validità di queste norme. Ciò può avere luogo innanzitutto dichiarando la liceità del loro amore e riportando così nel mondo giustizia incontaminata, incarnata in vita vera.
Gabriella vive di menzogna, quella che la società, la convenienza, sembra averle imposto e di questa menzogna il marito ed il figlioletto sono causa e condanna.
“Ora non la prego più” disse infine, a voce bassa. “Se teme che le faccia male, signora, allora lasci morta, lasci muta quella bellezza che potrebbe sorgere sotto le sue dita. Non sempre lei si mostrò in passato altrettanto giudiziosa: almeno non quando si trattò appunto, per lei, di rinunciare alla bellezza. Lei non si preoccupò per nulla del suo corpo, lei diede prova di una volontà ben più ferma e più spensierata, quando decise di abbandonare la fontana e di deporre la coroncina d’oro…Ascolti”, continuò dopo una pausa, e la sua voce si fece ancora più bassa, “se lei ora si siederà qui e suonerà come una volta, come quando suo padre le stava accanto e traeva dal violino quelle note che la facevano piangere…può darsi, allora, che la coroncina d’oro torni a brillare segreta fra i suoi capelli…”.
Vi è solo un posto, sembra dirci Mann, entro cui il riscatto del reale attraverso l’ideale che costituisce secondo Spinell preludio alla liberazione di Gabriella e realizzazione del loro amore, può avere luogo in tutta la sua intrattenibile ed intraducibile potenza: nella musica. Indimenticabili sono le pagine che egli dedica al duetto tratto dall’opera Tristano ed Isotta di Wagner eseguito da Gabriella e da Spinell al pianoforte in cui lo scrittore condensa tutto il senso ed il significato della lotta ardente e coraggiosa di Spinell, del desiderio di Gabriella di lasciarsi salvare e della consapevolezza, in fondo, dell’irrealizzabilità di una sfida inevitabilmente compromessa dall’altezza, dalla perfezione, dalla grandezza del suo scopo.
“Che avveniva? Due forze, due esseri lontani tendevano soffrendo ed esultando l’uno verso l’altro, e si univano nella tripudiante, folle aspirazione. […]Sotto il lavorio delle mani si avverava il crescendo inaudito, spezzato da quell’improvviso e quasi atroce pianissimo che è come uno scivolar del suolo sotto i piedi, uno sprofondare sublime. E la piena terrificante di quell’esito, di quella catastrofe, traboccò, si ripeté e si ripeté insaziabile, soffio assordante di sconfinato appagamento, rifluì trasfigurandosi, parve voler spirare, intessé il motivo del desiderio un’ultima volta alla propria armonia, si perse, svanì, dileguò. Tutto tacque. Si alzò. Attraversò la sala. E poi avvenne questo: quindici o venti passi distante da lei, egli cadde in ginocchio, silenziosamente cadde sulle due ginocchia. Le lunghe falde dell’abito nero si afflosciarono sul pavimento: ed egli teneva le mani giunte sopra la bocca, un tremito gli scuoteva le spalle”.
L’arte, la poesia rimane così nel racconto di Mann l’unico luogo capace di ospitare il riscatto di Spinell/Tristano, che se pur perde la sua Isotta tra le pieghe della vita e della morte, ne custodirà per sempre l’essenza, la bellezza, il respiro, grazie alla narrazione che l’arte ne sa offrire e che ha nella ripetizione garanzia incondizionata di esistenza.
“Allora il signor Spinell girò sui tacchi e si allontanò. Seguìto dagli scoppi di giubilo del piccolo Klöterjahn, se ne andava camminando sulla ghiaia, atteggiando le braccia in una certa posa circospetta e goffamente aggraziata, col passo fortemente incerto di chi non vuol far capire che sta battendo in ritirata dentro di sé”.
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