Cerca nel blog

giovedì 10 luglio 2014

Cinque memorie sull'istruzione pubblica, Jean-Antoine de Caritat (Marchese di Condorcet)

Cinque memorie sull'istruzione pubblica

Jean-Antoine de Caritat, marchese di Condorcet 

(1791)


"La cultura è l'unica arma di riscatto" (Scampia, Napoli)

«In generale, qualsiasi potere, di qualunque natura esso sia, quali che siano le mani in cui è riposto e in qualunque maniera esso sia stato conferito, è naturalmente nemico dei lumi. Talvolta lo si vedrà adulare i talenti, quando questi si abbassano a divenire lo strumento dei suoi disegni o della sua vanità; ma chiunque farà professione di cercare la verità e di affermarla sarà sempre odioso a chi esercita l’autorità».

È davvero un formidabile paradosso incontrare una simile affermazione nel bel mezzo di un progetto politico-filosofico sull’istruzione pubblica, un progetto che chiama proprio il potere politico a garantire, diffondere e organizzare l’istruzione di tutti i cittadini; che esige, in altre parole, dall’autorità la distribuzione universale degli strumenti che consentono di proteggersene o addirittura di negarla. Non è il solo felice paradosso che attraversa le pagine delle «Cinque memorie sull’istruzione pubblica», date alle stampe nel 1791 da Marie Jean Antoine Nicolas de Caritat, marchese di Condorcet, ma è forse quello più decisivo, ardito ed anticipatore di tutta una tradizione di pensiero critico che indaga il rapporto tra potere politico ed autonomia del sapere, tra «volontà generale» e libertà dei singoli, tra le norme e la capacità individuale di giudizio.

Le «Cinque memorie» di Condorcet, che nella forma di un progetto istituzionale racchiudono un’agenda teorica tra le più avanzate e acute, ci restituiscono nitidamente, la complessità e l’articolazione di una elaborazione critica tanto radicale quanto solida. Ben poche delle idee correnti sulla formazione e sulla sua riforma, sulla funzione della scuola e sui suoi rapporti con la società, sul bene pubblico e sulla libertà dei singoli, sul sapere e sulla produzione della ricchezza, reggerebbero al vaglio di questo potente strumentario concettuale elaborato più di due secoli fa, negli anni appassionati e tumultuosi della rivoluzione. Se oggi scelgo di riproporle non è semplicemente per rendere omaggio a un classico dimenticato o confinato nella marginalità, per restaurare un capitolo bistrattato di storia delle idee o per rivitalizzare gli studi sul Secolo dei lumi, ma per arricchire un arsenale (diciamo quello delle armi della ragione) da impiegare nel conflitto decisivo che si sta giocando sul terreno della formazione e della trasmissione del sapere per il controllo sulla cooperazione sociale (che è oggi essenzialmente cooperazione di saperi e conoscenze).


Condorcet, eletto alla Convenzione nel 1791, cadrà presto vittima del Terrore. Vicino ai girondini, (arrestati nel giugno del 1973), è catturato, dopo diversi mesi di latitanza, nel marzo del 1794 a Clamart. Muore, suicida o di stenti, nella prigione di Bourg- Egalité, il 29 marzo, subito dopo il suo arresto e prima di essere trasferito a Parigi. Ma non è tanto una appartenenza di fazione, peraltro piuttosto lasca, quanto il sostanziale radicalismo democratico delle sue posizioni a porlo in rotta di collisione con Robespierre e con la politica del Comitato di salute pubblica. 


Condorcet è un nemico dichiarato dell'assolutismo astratto del potere, contro cui cerca di elaborare tutti i possibili antidoti legislativi. La «volontà generale» come potere costituito legittimato dalla delega-rinuncia dei singoli, come confluenza delle volontà particolari in un destino comune che le sovrasta, gli è invisa. Non gli sfugge la stretta parentela tra la «volontà generale» di stampo rousseauviano, in cui il popolo troverebbe la sua unità e la sua espressione, e il pactum subiectionis che fonda lo stato assolutista. Ogni autorità deve, a suo parere, sottomettersi perennemente al tribunale razionale della verità e dell’errore. Ma questo tribunale non è presieduto da un’idea astratta di Ragione resa oggetto di culto, o, peggio, da un corpo di verità dogmatiche stabilite dalla tradizione e dai suoi custodi: esso consiste piuttosto in un processo concreto, immanente, che vive e agisce attraverso il giudizio critico della generalità delle singole persone, che si accresce, si trasforma e si rinnova nella loro interazione. Le persone, questo in sostanza il nucleo concettuale sotteso alla posizione di Condorcet, non possono mai essere espropriate dei loro diritti naturali, né del diritto di giudicare di volta in volta e di rimettere in questione l’autorità costituita e il suo principio di legittimazione. 


L'universalismo antidogmatico e autoriflessivo, che poggia sull’«amore per l’umanità» e sulla pretesa di una giustificazione razionale delle scelte e delle azioni, si configura così come un sostrato, un patrimonio comune, capace di articolarsi, in virtù della sua stessa generalità e della sua aspirazione alla verità, nel giudizio autonomo dei singoli, il quale, a sua volta, sarà posto a fondamento di un governo razionale della cosa pubblica. Questo presupposto prende forma concreta nell’idea di «istruzione pubblica» e nel suo contrapporsi, immediatamente ed esplicitamente, all’idea giacobina, ma non solo, dell’«educazione nazionale», con i suoi miti spartani, la sua soffocante ritualità laica e il suo feroce conformismo patriottico, che prevarrà dopo il 1793 per volere di Robespierre. Istruzione contro educazione; pubblico contro nazionale: questi i termini di una contrapposizione che merita di essere giocata fino in fondo. Trasmissione di un sapere razionale e degli strumenti della critica, contro l’integrazione dei singoli in una comunità organica predeterminata, con il suo sistema di valori e i suoi stili di vita. «Pubblico», inteso come condivisione delle risorse e delle possibilità, come immanenza dei diritti che conferisce una base concreta all’autonomia dei singoli, contro «nazionale», inteso come appartenenza e identità, come sacrificio e dedizione, come precetto dell’amore per l’ordine costituito. 


È propriamente questa idea di «pubblico», che sebbene investa lo stato del compito e del dovere di garantire a tutti i suoi cittadini l’istruzione, esclude non meno decisamente che questa rivesta qualsivoglia carattere statale. Poiché è nella sfera pubblica, nel confronto e nell’interazione dei giudizi razionali, resi possibili dalla diffusione del sapere, che il Politico trova il suo fondamento e la sua legittimità, sempre reversibile. Senza questi lo stato stesso diverrebbe illeggittimo, arbitrario, prevaricatore. Ma, paradossalmente, solo lo stato con le sue leggi può garantire il carattere non statale dell’istruzione. Può garantire, insomma, l’autonomia della conoscenza dal potere politico che così, di quest’ultimo, può divenire, al tempo stesso, giudice e fondamento, critica e legittimazione. La sfera pubblica non è il bene comune, ma quel luogo nel quale del bene comune si può giudicare e, così facendo, produrlo. Nessuna entità sovradeterminata ne è depositaria, né per diritto divino, né per delega terrena.
Ma Condorcet si guarda bene dal concedere allo stato il monopolio dell’istruzione ( e gli nega esplicitamente ogni interferenza nell’educazione, che riserva piuttosto alla famiglia). All’istruzione privata deve essere consentito di competere con quella pubblica, come alternativa, stimolo e termine di paragone. Ma non si può affidare all’interesse particolare, a una libera scelta, a una valutazione contingente di opportunità, il compito di assicurare ciò che sta a fondamento stesso del vivere collettivo secondo ragione, né la dimensione egualitaria che necessariamente gli si accompagna. Non si può pretendere che la famiglia impartisca una educazione «non familiare», né che una istituzione privata offra una istruzione «non privata». Solo lo stato può garantire, attraverso una complessa architettura di leggi e contrappesi, una istruzione «non statale» (naturalmente può fare -come qui in Italia sappiamo bene- anche l’esatto contrario).


Ma se il potere pubblico non può delegare né alla famiglia, né all’iniziativa dei privati un elemento che è costitutivo della possibilità stessa di una Repubblica, quale l’istruzione, esso dovrà nondimeno accettare, nella sua configurazione, il condizionamento e in parte la guida di quei settori della società che producono, conservano e accrescono autonomamente il sapere. Di quella che oggi chiameremmo la comunità scientifica. Il potere pubblico non produce sapere, né è in grado di giudicarne la verità o l’importanza, di valutare le competenze e i talenti. Questo compito spetta allora alla comunità degli studiosi, ai cultori delle scienze e delle arti.




mercoledì 9 luglio 2014

Tristan, Thomas Mann

TRISTAN

THOMAS MANN

Mondadori (1970)





Il Tristan, che Thomas Mann scrive nel 1902, è narrazione di tante storie tra cui, affianco a vicende descritte ed al taglio interpretativo che liberamente possiamo decidere di assegnarvi, troviamo considerazioni critiche e storiografiche, ipotesi possibili sul posto che il racconto occupa nella produzione di questo importante scrittore: penso naturalmente alla relazione con il capolavoro “La montagna incantata” a cui questo brevissimo racconto sembra essere timido preludio; ma penso anche al rapporto che esso intrattiene con l’ omonima opera musicale scritta da Wagner. Vorrei lasciare qui tuttavia da parte la complessità esegetica ed interpretativa, eppure interessantissima, che senza dubbio incornicia questo racconto meraviglioso per soffermarmi su una sola di queste storie, una storia dolcissima ed umana.

Il Tristan, vorrei dirvi allora, mi sembra innanzitutto la storia di un amore impossibile. Che la logica narrativa a cui fa capo il racconto sia proprio quella in cui si svolgono gli amori impossibili, lo capiamo dalle primissime pagine quando Gabriella Eckhof, moglie del commerciante A.C. Klöterjahn, incontra lo scrittore Detlev Spinell, entrambi ricoverati presso il sanatorio “La Quiete”. I toni di quest’incontro sono quelli inizialmente soffici, delicati e tuttavia percettibilmente potentissimi, che si dischiudono ogni qualvolta l’immaginario letterario ospita ed avvicina creature complementari e che, nel corso della narrazione, si appropriano progressivamente dei colori straboccanti, folgoranti di un destino drammatico e tuttavia ineludibile, inscritto in un’appartenenza a cui non si può sfuggire.

“Stamattina, facendo la mia passeggiata”, diceva Spinell, “ho visto una donna bella…Dio, se era bella!”. E, piegando il capo da un lato, divaricava le mani. “Davvero, signor Spinell? Me la descriva , via!”. “Oh no, è impossibile. Non potrei dargliene un’immagine precisa. L’ho soltanto sfiorata con lo sguardo, mentre passava: in verità, non l’ho neppure vista. Ma quell’ombra fugace che ho scorta è bastata ad accendere la mia fantasia e a permettermi di recare con me una visione di assoluta bellezza…Ah, che bellezza!”. 
La sua interlocutrice rideva: “E’ questa, signor Spinell, la sua maniera di guardare le belle donne?”. “Sì, signora; e non è certo migliore l’avvolgerle di un’occhiata brutale, ghiotta di verità, per riportarne poi un’impressione di materia difettosa. Solo un viso io conosco del quale sarebbe peccaminoso voler correggere con la mia immaginazione la realtà: un viso che vorrei osservare, sul quale vorrei soffermarmi non per minuti né ore, ma per l’intera vita, e perdermi tutto in esso e dimenticavi ogni cosa terrena…”.

Spinell stringe così amicizia con Gabriella ed in questo affiancamento graduale e penetrante le parole ci sembrano avere davvero un ruolo ed una funzione fondamentale: l’incontro, la comunione, la condivisione del sentire tra Gabriella e Spinell ha luogo proprio attraverso il medium dell’espressione che sinora lo scrittore, come Mann ci racconta, era riuscito ad incarnare malamente in un’opera mediocre, “interessante, sì…ma mortalmente noiosa”. Di fronte a Gabriella la parola perde d’improvviso la complessità comportata dalla sua natura virtuale, la forza potenziale ed inespressa, la sfuggevolezza, per divenire invece dardo infuocato, naturalmente e spontaneamente capace di tessere in modo precisissimo per la donna, come accade in letteratura, una realtà diversa, collocata al confine tra arte e poesia, entro cui ella possa poi trovare rifugio e, così, sé stessa. Spinell trasporta Gabriella per questa via in quella dimensione ideale -quella etica e morale dell’arte e della poesia, come dicevamo-, in cui egli vede originare la bellezza della donna, una bellezza evidentemente non semplicemente estetica ma “narrativa”, in tal senso totalizzante. E’ proprio in questa dimensione -del tutto dimentica del reale -, che egli può dar voce alle leggi purissime di un bisogno comune: quello cioè di provare a riscattare le brutture della realtà di cui anche Gabriella è prigioniera -e che di fatto Spinell crede causarne la malattia-, attraverso lo sforzo sovrumano d'affermare in essa l’incontrovertibile validità di queste norme. Ciò può avere luogo innanzitutto dichiarando la liceità del loro amore e riportando così nel mondo giustizia incontaminata, incarnata in vita vera. 

Gabriella vive di menzogna, quella che la società, la convenienza, sembra averle imposto e di questa menzogna il marito ed il figlioletto sono causa e condanna. 

“Ora non la prego più” disse infine, a voce bassa. “Se teme che le faccia male, signora, allora lasci morta, lasci muta quella bellezza che potrebbe sorgere sotto le sue dita. Non sempre lei si mostrò in passato altrettanto giudiziosa: almeno non quando si trattò appunto, per lei, di rinunciare alla bellezza. Lei non si preoccupò per nulla del suo corpo, lei diede prova di una volontà ben più ferma e più spensierata, quando decise di abbandonare la fontana e di deporre la coroncina d’oro…Ascolti”, continuò dopo una pausa, e la sua voce si fece ancora più bassa, “se lei ora si siederà qui e suonerà come una volta, come quando suo padre le stava accanto e traeva dal violino quelle note che la facevano piangere…può darsi, allora, che la coroncina d’oro torni a brillare segreta fra i suoi capelli…”.

Vi è solo un posto, sembra dirci Mann, entro cui il riscatto del reale attraverso l’ideale che costituisce secondo Spinell preludio alla liberazione di Gabriella e realizzazione del loro amore, può avere luogo in tutta la sua intrattenibile ed intraducibile potenza: nella musica. Indimenticabili sono le pagine che egli dedica al duetto tratto dall’opera Tristano ed Isotta di Wagner eseguito da Gabriella e da Spinell al pianoforte in cui lo scrittore condensa tutto il senso ed il significato della lotta ardente e coraggiosa di Spinell, del desiderio di Gabriella di lasciarsi salvare e della consapevolezza, in fondo, dell’irrealizzabilità di una sfida inevitabilmente compromessa dall’altezza, dalla perfezione, dalla grandezza del suo scopo.

“Che avveniva? Due forze, due esseri lontani tendevano soffrendo ed esultando l’uno verso l’altro, e si univano nella tripudiante, folle aspirazione. […]Sotto il lavorio delle mani si avverava il crescendo inaudito, spezzato da quell’improvviso e quasi atroce pianissimo che è come uno scivolar del suolo sotto i piedi, uno sprofondare sublime. E la piena terrificante di quell’esito, di quella catastrofe, traboccò, si ripeté e si ripeté insaziabile, soffio assordante di sconfinato appagamento, rifluì trasfigurandosi, parve voler spirare, intessé il motivo del desiderio un’ultima volta alla propria armonia, si perse, svanì, dileguò. Tutto tacque. Si alzò. Attraversò la sala. E poi avvenne questo: quindici o venti passi distante da lei, egli cadde in ginocchio, silenziosamente cadde sulle due ginocchia. Le lunghe falde dell’abito nero si afflosciarono sul pavimento: ed egli teneva le mani giunte sopra la bocca, un tremito gli scuoteva le spalle”.

L’arte, la poesia rimane così nel racconto di Mann l’unico luogo capace di ospitare il riscatto di Spinell/Tristano, che se pur perde la sua Isotta tra le pieghe della vita e della morte, ne custodirà per sempre l’essenza, la bellezza, il respiro, grazie alla narrazione che l’arte ne sa offrire e che ha nella ripetizione garanzia incondizionata di esistenza.

“Allora il signor Spinell girò sui tacchi e si allontanò. Seguìto dagli scoppi di giubilo del piccolo Klöterjahn, se ne andava camminando sulla ghiaia, atteggiando le braccia in una certa posa circospetta e goffamente aggraziata, col passo fortemente incerto di chi non vuol far capire che sta battendo in ritirata dentro di sé”.


lunedì 30 giugno 2014

Spazio e tempo nella fisica contemporanea, Moritz Schlick

IL PROBLEMA DELLO SPAZIO NELLA SCIENZA CONTEMPORANEA (Spazio e tempo nella fisica contemporanea, Moritz Schlick)






Premessa:

Per comprendere lo sviluppo dei concetti dello spazio e del tempo nella scienza contemporanea ed il legame di questa evoluzione con la filosofia bisogna innanzitutto chiarire il senso che dell’analisi filosofica verrà qui presupposto e che, per tante e molte ragioni, oggi non appare così immediato. Vi propongo allora questi passi che bene provano a renderne conto e che traggo da opere di due importantissimi scienziati, uno dei quali -Federico Enriques-, matematico e storico della scienza nostro, italiano, tuttavia dimenticato purtroppo.

1) H.Reichenbach, The Rise of Scientific Philosophy, pp. 12-13


Ecco un passo tratto dagli scritti di un famoso filosofo: “la ragione è sostanza, potere illimitato, materiale infinito e base di tutta la vita naturale e spirituale; nonché, forma infinita e principio di movimento. Essa è la fonte da cui ogni cosa deriva il proprio essere”.
Posti di fronte a simili creazioni linguistiche, molti lettori finiranno per spazientirsi. Non riuscendo a cavarne fuori alcun significato, mediteranno forse di buttare il libro nel fuoco. Per superare tale reazione emotiva e assumere un atteggiamento logicamente critico, essi dovrebbero intraprendere l’esame del linguaggio filosofico da un punto di vista neutrale, analogo a quello del naturalista che studia un raro tipo di coleottero. L’analisi dell’errore ha inizio con l’analisi del linguaggio.
Lo studente di filosofia, invece, per lo più non rimane sconcertato nel leggere cose del genere. Al contrario, considerando il passo citato, egli probabilmente crederà di non riuscire a comprenderlo per propria colpa e ne ripeterà la lettura fino a convincersi di averlo capito. A questo punto egli riterrà affatto ovvio che la ragione sia un materiale infinito, base della vita naturale e spirituale, nonché, conseguentemente, sostanza di tutte le cose. Finirà così per abituarsi a tale modo di parlare, dimenticando ogni possibile critica del lettore meno “colto”.
Si pensi ora allo scienziato, avvezzo a servirsi delle parole per formulare frasi immancabilmente fornite di senso. Egli costruisce i propri enunciati in maniera che sia sempre possibile provarne la verità, e non si preoccupa se la prova comporta laboriose riflessioni. Egli non ha paura del ragionamento astratto, pretendendo però, che in qualche modo esso sia saldato a quanto si vede, si sente e si tocca. Che ne direbbe un simile uomo del passo in questione?
I termini “materiale” e “sostanza” gli sono familiari. Egli li ha usati nella descrizione di molti esperimenti e ha imparato a misurare solidità e peso di materiali e sostanze. Egli sa pure che un materiale può constare di più sostanze, ciascuna diversa da esso per aspetto. Si tratta quindi di parole in sé per sé piane e nient’affatto ambigue.
Ma quale materiale può costituire la base della vita? Si sarebbe tentati di identificarlo con la sostanza corporea di cui sono fatti gli organismi. In tal caso però, come potrebbe coincidere con la ragione, facoltà astratta degli uomini, manifestantesi nel loro comportamento, o, tutt’al più, in alcune fasi di esso?S’intende, forse, da parte del filosofo citato, affermare che i corpi umani sono formati da una facoltà astratta?
Nemmeno un filosofo può sostenere assurdità del genere. Ma allora, che cosa si vuol dire? Probabilmente che gli eventi nell’universo hanno uno sviluppo caratterizzato da propositi razionali. Questo può essere messo in dubbio, ma almeno risulta comprensibile; tuttavia, se ciò è tutto quello che il filosofo vuole asserire, perché esprimerlo in maniera così oscura?
Questo è il problema che desidereremmo risolvere prima di dichiarare che cosa la filosofia sia e che cosa dovrebbe essere.

2) F.Enriques, Filosofia Scientifica, p. 55

La posizione della filosofia scientifica nella cultura è determinata dal divorzio tra scienza e filosofia che si produsse all’inizio del XIX secolo. Nel momento in cui lo spirito romantico - esprimendo una reazione contro il progresso realizzato dalla scienza - costruiva la teoria idealistica della conoscenza e la filosofia della natura, lo spirito classico, maturato dalla disciplina intellettuale del metodo matematico e sperimentale, prendeva coscienza dell’esigenza fondamentale che è inerente al successo storico del pensiero scientifico.

La filosofia sarà dunque qui intesa come analisi concettuale, come strumento attraverso cui ricostruire la genesi di problemi e concetti difficili. Ciò serve a noi innanzitutto per capire meglio il significato di teorie scientifiche che troppo spesso si propongono al senso comune attraverso formule matematiche molto complesse; ma serve, a ben vedere, anche a chi di scienza si occupa per acquisire consapevolezza sufficiente dei concetti coinvolti e delle questioni ad essi sottese.
Per ricostruire il problema dello spazio-tempo (che qui, per semplicità e brevità, corrisponderà al solo problema dello spazio) dobbiamo chiarire innanzitutto i motivi e le ragioni di quella fase del pensiero scientifico collocata ad inizio ‘800, conosciuta come CRISI DEI FONDAMENTI e che comportò tra le scienze, prima nella geometria e poi nella matematica e nella fisica, una rivoluzione radicale. Questa fase della riflessione filosofica corrisponde per altro al periodo in cui la storia della filosofia ci racconta di pensatori come Kierkegaard e Nietzsche i quali, verso il sapere scientifico e verso ogni visione scientifica (significa, razionale) del mondo, spendono parole molto critiche e polemiche. Lo scopo di questo intervento è allora anche quello di provare a ricordarvi che, accanto a questi più famosi e rinomati personaggi, ritroviamo -nascoste, purtroppo- alcune considerazioni afferenti alla matematica, alla geometria ed alla fisica che, per quanto troppo spesso taciute, sono per la storia culturale dell’uomo molto rilevanti.

La crisi dell’evidenza:

Per capire gli sviluppi che la scienza conobbe tra il XIX e il XX secolo, è necessario ricordare alcuni caratteri del pensiero scientifico precedente e che collochiamo tra XVII e XVIII secolo. In questa fase del pensiero, la visione scientifica del mondo era dominata da un solido riferimento all’esperienza, il cui senso era tessuto a partire dalla stretta collaborazione tra logica (le regole del pensiero) ed intuizione (l'esperienza, ordinata appunto attraverso regole del pensiero immediatamente evidenti). Questa particolare visione del mondo era conseguenza dell'intreccio tra matematica (ovvero, tra la descrizione matematica del mondo) e la geometria che, ancora in questi secoli, caratterizziamo come “euclidea” : il successo della geometria euclidea, garantito dalla sua semplice ed immediata comprensione intuitiva, si confermava nel fatto che, nel corso del tempo, aveva offerto un modello ideale di riferimento chiaro e distinto per la descrizione del mondo, soprattutto in ambito scientifico. Proviamo a spiegare bene.
La geometria euclidea era fondata su una struttura di tipo assiomatico: traeva cioè origine dalla constatazione secondo cui, in genere, per ordinare un certo ambito di esperienza era sufficiente introdurre concetti (veri per via intuitiva) sulla base di cui, poi, formulare proposizioni. Il mondo giungeva per questa via ad avere una fisionomia in cui lo spazio si poneva come una dimensione da potere toccare, attraversare, misurare. I passi che presiedevano ad un'interpretazione euclidea dello spazio e così del mondo, erano i seguenti: 
  1. individuare un numero di concetti sufficientemente ristretto, i CONCETTI PRIMITIVI (ad esempio , la nozione di punto - ovvero, “ciò che non ha parti”-, la nozione di retta - ovvero, “una lunghezza priva di larghezza”-, la nozione di angolo, e così via ), il cui significato poteva essere afferrato per via intuitiva, dunque immediatamente ed in modo evidentissimo nell’esperienza.
  2. individuare un numero ridotto di proposizioni, gli ASSIOMI (ad es., per due punti passa una sola retta), la cui verità era anch’essa intuitivamente evidente poiché fondata sui concetti primitivi.
  3. trasmettere ad ogni altra proposizione dedotta da assiomi intuitivamente veri (TEOREMA), la verità di cui essi si facevano mediatori attraverso lo strumento logico della dimostrazione.
In questo modo l’operazione logica della “dimostrazione” risolveva il problema della verità delle proposizioni, ricorrendo appunto alla verità dei concetti primitivi e degli assiomi per i quali il problema della verità appunto, era risolto all’origine ricorrendo al criterio extralogico dell’evidenza intuitiva.

Sorse ad un certo punto una domanda: il criterio dell'evidenza, era davvero in grado di fondare su base sicura e generale,  tutti  i concetti primitivi? Facendo ricorso all'evidenza, non ci si appellava forse, più che ad una proprietà logica, ad un’esigenza psicologica che era capace sì di indicare un terreno ultimo e garanzia di una certezza indubitabile, ma tuttavia a rigore non dimostrabile a sua volta? Detto in modo difficile, l’interconnessione tra il momento logico ed il momento empirico sembrava compromettere il rigore delle teorie scientifiche. La mancanza di una giustificazione logica per il criterio dell'evidenza intuitiva (che, di fatto, si auto validava) , impose come necessario un maggior rigore nei processi della scienza. E fu proprio questo bisogno di rigore a comportare la discussione intorno ai suoi fondamenti: lo scopo di tale discussione era quello di dare una dimensione filosoficamente più esatta a discipline che avevano certamente grandi applicazioni pratiche ma che non potevano accontentarsi di essere fondate sull’intuizione, un criterio evidentemente non abbastanza rigoroso. La necessità di rigore venne così espressa attraverso l’eliminazione progressiva del criterio d’evidenza come base per giustificare le proposizioni ed i risultati matematici.
La tendenza che allora si cominciò ad affermare fu quella di esplicitare i concetti soggiacenti alle varie teorie al fine di chiarirne il più possibile le strutture deduttive. In questo processo ebbe ruolo fondamentale la logica. La convinzione che cioè maturò fu che l’intuizione, facendo appello all’evidenza empirica (ovvero, immediatamente indicabile nell'esperienza), non fosse in grado di evidenziare fino in fondo il contenuto razionale dei concetti la cui derivazione avrebbe dovuto avere luogo per via esclusivamente logica per potere essere detta logicamente esatta. 

Cantor scrive “ La scienza nel suo sviluppo è completamente libera e vincolata soltanto alla condizione, evidente di per sé, che i suoi concetti siano in sé non contraddittori e stiano in relazioni ben definite, assicurate dalle definizioni, con concetti precedentemente elaborati ed analizzati... Non appena un concetto soddisfa queste condizioni deve essere considerato esistente e reale”. A questa richiesta verrà d'ora in poi essere ricondotta la fondazione di ogni branca della scienza per essere detta pienamente rigorosa e coerente.

Dalla geometria euclidea alla geometria non euclidea: il problema dello spazio

E’ proprio la geometria a tenere il passo, indicando per prima una via di sviluppo alternativa a quella segnata dall’evidenza. Ciò avvenne nel corso dell’ 800 con lo sviluppo delle geometrie non euclidee che testimoniano così in modo inequivocabile la crisi dell’evidenza. Si tratta di un momento di svolta fondamentale che sancisce nello sviluppo della scienza un cambiamento radicale e che avrebbe avuto importanti ripercussioni anche sull’evoluzione della matematica, della fisica e sul problema della conoscenza in generale.
Per duemila anni la geometria euclidea era stata LA geometria, l’unica possibile fondata sull’evidenza incontrovertibile di natura intuitiva di concetti e di postulati dai quali venivano ricavati secondo un rigoroso procedimento deduttivo i teoremi costitutivi del sapere geometrico. Lo spazio euclideo, la cui struttura come per gli altri concetti primitivi era derivata dall’esperienza, veniva considerato qui lo spazio oggettivo: secondo Euclide cioè, lo spazio esiste ed è caratterizzato da una forma piana, quella forma cioè che le nostre facoltà intellettuali riescono ad astrarre dall’esperienza.
  • Newton, il padre della fisica classica, parlava a proposito di “spazio assoluto”, ponendolo a fondamento del mondo oggettivo;
  • Kant, come sostengono alcuni (anche se io non sono d’accordo, ma tant’è), intendendo legittimare e giustificare il sistema newtoniano, lo aveva concepito come forma dell’intuizione pura ponendolo alla base dei giudizi sintetici a priori. 
La crisi dei fondamenti andò a minare alle basi questo edificio secolare. Perchè?Perchè i matematici ed i geometri cominciarono a ritenere, alla luce delle considerazioni scaturite dalla crisi dei fondamenti, che esistesse almeno un punto all’interno della geometria euclidea che portava di fatto alla luce le debolezze della sua fondazione intuitiva. Si tratta di un punto che in realtà aveva da sempre attirato l’attenzione dei matematici e di cui, come si legge negli Elementi, lo stesso Euclide non era del tutto convinto: si tratta del V postulato o “postulato delle parallele”. A differenza degli altri 4 postulati, il V postulato non sembrava mostrare la medesima autonomia, ovvero la medesima certa ed indiscutibile evidenza intuitiva. Richiamiamo per un momento i 5 postulati per capire meglio:
1 - tra due punti passa una sola retta
2 - si può prolungare un segmento oltre due punti indefinitamente
3 - dato un punto e una lunghezza è possibile descrivere un cerchio
4 - tutti gli angoli retti sono uguali
5 - data in un piano una retta ed un punto fuori di essa, si dà soltanto una retta che, passando per quel punto, sia parallela alla retta data
Si riteneva insomma che, benché Euclide avesse raccolto la quinta proposizione sotto i postulati (cioè sotto asserzioni garantite dall’evidenza costruttiva compiuta attraverso riga e compasso, dunque per via intuitiva), fosse in realtà un teorema e per ciò fosse dimostrabile, piuttosto che intuitivamente evidente. Per questo motivo e  per moltissimo tempo, i matematici avevano provato a ricavarlo dai precedenti 4 ma senza successo. Insomma, il postulato delle parallele non risultava “evidentemente vero”, poiché non rimandava ad alcuna costruzione limitata, ad alcuna porzione finita di spazio. Era insomma controintuitivo. Significa, non tratteneva in sé garanzia di alcuna verità e dunque poteva a ragione non essere vero. Questa ipotesi dava sufficiente spazio, almeno per via ipotetica, all'eventualità che esistessero geometrie in cui il quinto postulato si ponesse come falso. A ciò dobbiamo aggiungere che, il fallimento dei tentativi dimostrativi da parte dei matematici, aveva aperto la strada al concepimento di geometrie diverse da quella euclidea, come ad esempio la geometria iperbolica e la geometria ellittica, che troviamo infine alla base della relatività generale di Einstein.

La geometria iperbolica:

Fu Karl Friedrich Gauss, un matematico tedesco, nel 1813 il primo a porre le basi concettuali per una geometria diversa da quella euclidea: l’idea di potere costruire geometrie nelle quali non valesse il postulato delle parallele urtava a tal punto la mentalità millenaria che egli fu indotto a non rendere pubblica la sua scoperta per timore delle “grida dei beoti”. Dopo pochi anni, intorno al 1826 due matematici, indipendentemente l’uno dall’altro, l’ungherese Bolyai e il russo Lobacevskij, pubblicarono i loro lavori relativi alla costruzione di una nuova geometria iperbolica in tutto corrispondente a quella costruita da Gauss. In questa nuova geometria il V postulato veniva sostituito con l’assioma: “per un punto esterno passa più di una parallela alla retta data”. Ciò era evidentemente possibile presupponendo un concetto di spazio diverso da quello affermato da Euclide con il sostegno dell’intuizione e che in questo caso ha forma iperbolica, piuttosto che piana.


La geometria ellittica:

Qualche anno più tardi, nel 1854, il tedesco B. Riemann costruiva un nuovo sistema geometrico, la geometria ellittica che, al posto del V postulato di Euclide, sostituiva l'assunto secondo cui “per un punto esterno non passa alcuna retta parallela alla retta data”. 
Non avrebbe senso entrare qui troppo in dettagli tecnici, formali e matematici. Vi riporto piuttosto una rappresentazione (essì, intuitiva per forza..dunque un po' imprecisa), del cambiamento che conobbe la struttura dello spazio a partire dalla semplice negazione del V postulato di Euclide.

Nell'immagine (in ordine dall'alto):
1 - il concetto di spazio sotteso alla geometria di Riemann (“per un punto esterno non passa alcuna retta parallela alla retta data”. )
2 - il concetto di spazio sotteso alla geometria iperbolica (“per un punto esterno passa più di una parallela alla retta data”)
3 - il concetto di spazio sotteso alla geometria euclidea ("data in un piano una retta ed un punto fuori di essa, si dà soltanto una retta che, passando per quel punto, sia parallela alla retta data")


Considerazioni:
Tutto ciò innesca uno sviluppo di grande rilievo poichè:
  1. si affaccia per questa via la possibilità di costruire edifici geometrici dotati di rigore e di coerenza d’assiomi e di dimostrazioni non minori di quelli della geometria  euclidea e tuttavia indipendenti dalla struttura piana dello spazio presupposta alla geometria di Euclide. Ciò spingerà verso la matematizzazione e l’assiomatizzazione delle scienze caratterizzate da sistema ipotetico deduttivo fondato non più sull’evidenza intuitiva ma sul criterio della validità logica della costruzione teorica. 
  2. la pensabilità di geometrie diverse da quella classica genera crisi nella tradizionale interpretazione della geometria euclidea come scienza naturale dello spazio tempo fisico: si procede verso una distinzione progressiva tra la geometria matematica, intesa come libera costruzione a partire da insiemi di assiomi non più accompagnati dalla pretesa di essere veri ma su cui solo si “conviene” (la “verità” diviene qui conseguenza logica di assiomi), e la geometria fisica, intesa come ramo della fisica che cerca di organizzare e strutturare su basi razionali l’ambito dell’esperienza spaziale (la “verità” viene ricercata entro il più generale rapporto tra la struttura formale della conoscenza e gli eventi sperimentalmente indagabili).La “verità della geometria insomma non è più riconducibile semplicemente all’evidenza come accadeva per la geometria euclidea. Su questo passo teorico importante si fonderà la fisica contemporanea sia relativistica che quantistica.

Ripercussioni filosofiche (cenni):

Tutto ciò sembrava avere radicali ripercussioni anche sul terreno propriamente filosofico: la teoria che appariva immediatamente messa in questione era quella kantiana dello spazio e del tempo che molti vedevano caratterizzata proprio da quella radice intuitiva problematizzata dalla crisi dei fondamenti. Lo spazio kantiano era di fatto quello di Newton e dunque euclideo, così si diceva, la cui radice intuitiva era stata messa fuori gioco una volta per tutte dall’avvento delle geometrie non euclidee. La teoria kantiana funzionava sul piano fisico ma sul piano propriamente teorico poteva secondo alcuni (neoempiristi logici per esempio) ben essere definita “errata”. Ciò divenne tanto più vero con l’avvento della teoria della relatività che caratterizzò la realtà fisica, almeno a livello macroscopico, attraverso lo spazio ellittico riemanniano. Lo spazio kantiano insomma appariva del tutto fuori gioco.
Ciò però fu vero non per tutti: ad esempio la corrente neokantiana, fondata da Cohen e Natorp a Marburgo e nel Baden alla fine dell‘800, intese rivisitare l’insegnamento kantiano nella convinzione secondo cui, pur appartenendo al suo tempo, esso pur continuava a rimanere, se opportunamente elaborato alla luce del progresso delle scienze, non solo attuale ma addirittura fondamentale. Su questa via il massimo esponente della scuola di Marburgo, E. Cassirer, propose l’interpretazione del concetto di sintetico a priori in senso matematico e costruttivo abbandonando ogni residuo psicologico e intuitivo. Ciò d’altra parte era concesso dalla stessa filosofia kantiana che, se opportunamente studiata, offriva lo sfondo metodologico per essere sviluppata coerentemente in tale direzione.

E. Cassirer, Das Erkenntnisproblem in der Philosophie, Vol. 4

[...] Il riconoscimento di una pluralità di “geometrie” sembrava voler includere niente di meno che la rinuncia all’unità della ragione. Poiché coi moderni progressi della matematica, non solo si evitava sempre più di ricorrere all’intuizione ma si era arrivati infine ad una vera e propria crisi dell’intuizione a cui era necessario sostituire un atteggiamento critico più raffinato.
Questa trasformazione e questo equivoco riguardavano ancor più da vicino il problema dello spazio riguardo a cui tra i secoli VXII e XVIII il punto di vista newtoniano aveva prevalso su quello leibniziano. Lo spazio continuò ad essere definito come spazio assoluto e la realtà di questo spazio assoluto costituì tanto per i fisici quanto per i filosofi l’oggetto essenziale della ricerca.
Si comprende come dovessero apparire paradossali le idee delle geometrie non euclidee a chi pensava nel modo che abbiamo esposto. Nulla doveva rendere tanto perplessi  i filosofi che per primi discussero la possibilità della nuova geometria, quanto il dover tracciare una brusca linea di confine tra la formulazione del problema riguardante la logica e la critica della conoscenza e quella riguardante l’ontologia. Se c’erano differenti sistemi di assiomi della geometria, ci dovevano essere “spazi” differenti, e questi dovevano a loro volta contenere “mondi” differenti. Ma con questa ammissione, si sarebbe dovuto rinunciare per sempre alla pretesa essenziale della filosofia, di rappresentare una conoscenza unitaria ed universale della verità. La filosofia ritenne di lottare per il suo diritto fondamentale e per la sua missione essenziale, combattendo, su questo punto, la speculazione matematica.

[...]L’unità e la determinazione dell’oggetto sembravano irrimediabilmente perdute. Però è facile rendersi conto che la causa di queste antinomie non è da ricercarsi nell’astrazione geometrica stessa; esse sono dovute, all’incontro, ed ad una falsa posizione di un problema imposto a queste astrazioni dall’esterno. La geometria è una pura scienza delle “relazioni”; essa non si occupa di stabilire l’esistenza di oggetti e di caratteristiche di oggetti, di sostanze e delle loro proprietà, ma soltanto di determinare concetti di “ordine”. Anche il problema dell’unità dello spazio sollevato da Kant può essere inteso in essa solo in questo senso: esso non si riferisce all’unità sostanziale ma a quella formale o ideale. Kant come Leibniz aveva dichiarato che lo spazio era pura forma. Esso era secondo lui la “forma dell’ordine della coesistenza” mentre il tempo era la “forma dell’ordine della successione”. Con ciò il punto di vista della matematica moderna era stato in fondo percorso dalla filosofia.

[...] Secondo Kant la conoscenza geometrica ha inizio con l’esperienza ma non deriva per questo dall’esperienza. L’essenziale rimane anche qui l’elaborazione del pensiero; grazie ad essa si arriva infine ad attribuire un senso rigorosamente logico a certi concetti fondamentali che finora erano presi dalla semplice intuizione.


I. Kant, Kritik der reinen Vernunft 

DELLO SPAZIO (Estetica trascendentale)
[...]
  1. Lo spazio non è un concetto empirico, ricavato da esperienze esterne. Infatti affinché certe sensazioni vengano riferite a qualcosa fuori di me [...] deve esserci già a fondamento la rappresentazione dello spazio. Pertanto, la rappresentazione dello spazio non può essere nata per esperienza da rapporti del fenomeno esterno; ma l’esperienza esterna è essa stessa possibile, prima di tutto, per la detta rappresentazione
  2. Lo spazio è una rappresentazione necessaria apriori la quale sta a fondamento di tutte le intuizioni esterne.[...] Lo spazio viene dunque considerato come la condizione della possibilità dei fenomeni, non come una determinazione dipendente da essi. Second Cassirer ed i neokantiani insomma la filosofia kantiana non solo non contraddiceva ma addirittura si prestava ad esplicitare, anticipandola, la rivoluzione scientifica in atto che di lì a poco avrebbe interessato ogni branca della scienza. 


Ci addentriamo evidentemente in considerazioni molto specifiche e forse irrilevanti per capire bene cosa c'è in fondo qui in gioco. Ho però voluto riportare per completezza le conseguenze filosofiche del dibattito intorno allo spazio ed al tempo per provare a restituirvi l'importanza di questa riflessione per la scienza in cui scienza e filosofia si trovano a collaborare necessariamente spalla a spalla. Concludo questo percorso con le pagine che Federigo Enriques scrisse ad introduzione di un bellissimo ed importante progetto in cui auspicava, insieme ai suoi collaboratori, una continua e proficua collaborazione tra filosofia e scienza e che per noi rappresentano il senso vero di questo brevissimo intervento.
5) Programma della Rivista di Scienza fondata da Federigo Enriques a Bologna nel 1905
(disponibile integralmente all’indirizzo http://amshistorica.cib.unibo.it/collection.php?set=rivscienza)

L’organamento attuale della produzione scientifica trae la sua propria fisionomia dal fatto che i rapporti reali vengono circoscritti entro discipline diverse, le quali ognora più si disgiungono secondo gli oggetti e secondo i metodi della ricerca. 
I resultati di codesto sviluppo analitico della Scienza furono celebrati fino a ieri come incondizionato progresso, imperocché la tecnica differenziata e l’approfondita preparazione di coloro che coltivano un ordine di studii ben definito, recano in ogni campo del sapere acquisti importanti e sicuri.
Ma a tali vantaggi si contrappongono altre esigenze che il particolarismo scientifico lascia insoddisfatto, ed alle quali si volge con maggiore intensità il pubblico contemporaneo.
L’azione individuale e sociale, per il cui il sapere è richiesto come istrumento, e la tendenza ad unità del pensiero, tutti i bisogni reali ed ideali della vita onde la Scienza procede e di cui al Filosofia si fa interprete, convengono nell’affermare la sintesi meta superiore di ogni progresso. 
A questo fa ostacolo la differenziazione delle discipline particolari, sia perché lo sviluppo del linguaggio tecnico rende ognora più inaccessibili i resultati di una disciplina ai cultori di un’altra, sia perché la stessa preparazione approfondita richiesta nei singoli rami di studio, restringe la veduta dei problemi a a taluni aspetti che lo studioso è tratto a contemplare troppo esclusivamente; onde infine i criterii di valutazione si abbassano fino a misurare la ricerca dal metodo, anziché dallo scopo conoscitivo che con essa si persegue.
Contro codesti criteri ristretti intende reagire soprattutto il movimento nuovo di pensiero verso la sintesi; una filosofia, libera da legami diretti coi sistemi tradizionali,sorge appunto a promuovere la coordinazione del lavoro, la critica dei metodi e delle teorie, e ad affermare un apprezzamento più largo dei problemi della Scienza. Perl quale il particolarismo stesso viene compreso in un aspetto più adeguato nella interezza del processo scientifico.
Espressione ed organo di questa tendenza vuole essere la nostra Rivista, che nella misura del possibile si volge appunto a congiungere gli sforzi si studiosi, innalzando la visione degli scopi scientifici sopra le forme particolari della ricerca. 
Un siffatto ideale supera le differenze di vedute per cui si accende la lotta feconda delle scuole e può unire tutti gli spiriti di progresso che amano la Scienza e credono alla solidarietà dei rami che la compongono.
Una sola condizione è richiesta perché il dibattito riesca veramente fecondo, ed è che esso si mantenga nei limiti della Scienza; che, per quanto è possibile, gli uomini di aspirazioni filosofiche o sociali diverse convengano nel proposito di considerare l’oggetto del loro studio astraendo da ogni movente di ordine sentimentale; che insomma la prospettiva degli effetti desiderati o temuti rimanga estranea alla discussione dei problemi generali, così come accade, almeno come tendenza, entro i dominii particolari delle scienze più progredite. 
In questo senso appunto la Rivista vuole fare opera di Filosofia scientifica, non divenire banditrice di costruzioni etiche, politiche, metafisiche.
Tutti coloro che eccellono in un campo qualsiasi di studii sono pregati di recare a tale opera il loro concorso. Piaccia a ciascuno di lasciare per un giorno il con consueto linguaggio tecnico e dibattere nella forma più accessibile qualche problema generale, che altri, con uguale libertà ed indipendenza, verrà ad illuminare sotto aspetti diversi.
Il tentativo audace che un gruppo di animosi ha intrapreso con fede robusta potrà riuscire soltanto se alle forze modeste degli iniziatori soccorra largamente il consenso del pubblico.
Nel quale il Comitato dirigente ripone ogni speranza di lieto successo, orgoglioso di scrivere già i nomi di uomini illustri che si sono compiaciuti di portare il loro contributo alla 

Rivista di Scienza.
F. Enriques

giovedì 12 giugno 2014

Fondamenta degli incurabili, Iosif Brodskij

FONDAMENTA DEGLI INCURABILI
Iosif Brodskij
Adelphi (1989)



Al veneziano Marco Polo, Italo Calvino consegna nelle sue Città Invisibili  il dovere del racconto. Il racconto di un viaggio che Polo narra a Kublai Khan e che da Venezia lo conduce in oriente verso città fantastiche. Polo racconta di luoghi perduti, che forse sono esistiti ma di cui si è persa ogni traccia: città sospese nel vuoto, città mitiche e dell’assurdo. Brodskij differentemente da Marco Polo si ferma a Venezia ma con Marco Polo condivide il compito narrativo, la prospettiva: come ognuna delle città descritte da Marco Polo, la Venezia di Brodskij ci restituisce una possibile configurazione della civiltà, un possibile modo di inserirsi nella natura, di costruire forme artificiali, di utilizzare il linguaggio, di intrecciare rapporti. Questa possibilità di cui ci parla Brodskij non si declina tuttavia, come nell’opera di Calvino, in molteplici modelli: di Venezia ce ne è una sola, sembra dirci Brodskij, poiché stare a Venezia è come toccare la propria intimità perduta, entrare nel proprio autoritratto.

Brodskij si reca a Venezia solo d’inverno per evitare i turisti così che il suo sguardo d’esteta, di cultore del bello possa camminare senza inciampare in disarmonie umane. Muoversi a Venezia è come muoversi in un labirinto e di questo intrico di vie, ponti, case e canali Brodskij con la sua scrittura disegna una mappa, frantumando il racconto in un incedere discontinuo, fatto di susseguirsi di prose, di capitoletti che ondeggiano come sul mare. Brodskij di Venezia ci dice davvero moltissime cose sublimi e di tutte queste bellissime considerazioni io proverò ad esplicitarne solo due: vorrei cioè provare a spiegarvi perché per Brodskij, Venezia è innanzitutto la città “dell’occhio” e “dell’acqua”.

Stare a Venezia è come scrivere un libro: perché a Venezia si è sempre stranieri, prigionieri di una bellezza che non si possiede ma ci si dispiega davanti. Il bello s’impone, priva d’identità lo spettatore rendendolo provvisoriamente anonimo ed insegnandogli così, annullandolo, ad osservare il bello senza perdervisi dentro. Sapere osservare senza necessariamente ricercare in quanto si osserva parti di sé, è la prima condizione per poi cominciare a narrare. Venezia così, attraverso l’osservazione del bello a cui dà accesso, traccia una distanza sufficiente ad indicare allo scrittore la posizione nel racconto dell’io narrante, un io evidentemente universale che, libero di sé ma non per questo dimentico di sé, può offrire alla bellezza l’occasione di incarnarsi in una storia. L’incanto, l’adesione all’occhio dunque precede la penna.

Ma Venezia è anche la città dell’acqua, il palcoscenico del bello. Venezia è teatro sull’acqua, occhio liquido, che invita l’uomo a congedare il tempo orizzontale della normalità per disporsi alla verticalità:

“Il pizzo verticale delle facciate veneziane è il più bel disegno che il tempo - alias - acqua abbia lasciato sulla terraferma, in qualsiasi parte del globo. In più esiste indubbiamente una corrispondenza - se non un nesso esplicito - tra la natura rettangolare delle forme di quel pizzo - ossia degli edifici veneziani - e l’anarchia dell’acqua, che disdegna la nozione di forma. E’ come se lo spazio, consapevole - qui più che in qualsiasi altro luogo - della propria inferiorità rispetto al tempo, gli rispondesse con l’unica proprietà che il tempo non possiede: con la bellezza. Ed ecco perché l’acqua prende questa risposta, la torce, la ritorce, la percuote, la sbriciola, ma alla fine la porta pressoché intatta verso il largo, nell’Adriatico”


Venezia, come abbiamo visto, mette in scena il bello e lo può fare, spiega Brodskij, solo sfuggendo alla logica dello scorrere del tempo, il tempo orizzontale della vita, torcendo e forzando il tempo nella struttura immobile della spazialità; la spazialità è la dimensione dell’arte, del bello, di Venezia dunque, la città che che non passa ma immobile si erge verticale, fissandosi così in un eterno presente sempre uguale a sé stesso.

“Ripeto: acqua è uguale a tempo, e l’acqua offre alla bellezza il suo doppio. Noi, fatti in parte d’acqua, serviamo la bellezza allo stesso modo. Toccando l’acqua, questa città migliora l’aspetto del tempo, abbellisce il futuro. Ecco la funzione di questa città nell’universo. Perché la città è statica mentre noi siamo in movimento. Perché noi andiamo mentre la bellezza resta. Perché noi siamo diretti verso il futuro mentre la bellezza è l’eterno presente.”



Vi lascio qui Venezia di Guccini:
Venezia, Francesco Guccini

e qui il link alla recensione sul mio canale: Fondamenta degli incurabili, Iosif Brodskij

mercoledì 11 giugno 2014

La Passeggiata, Robert Walser

LA PASSEGGIATA

Robert WALSER

Adelphi (1976)




Perché La passeggiata di Robert Walser dia subito una tale impressione di straordinaria altezza poetica, non è facile spiegarlo. Bisognerebbe dedicarsi a una ricognizione, tanto paziente quanto faticosa, attraverso l’intera opera dello scrittore, arruffata e discontinua per gli stimoli razionalmente mal conciliabili.


Di certo questo breve racconto racchiude nei suoi toni apparentemente dimessi e banali, un’apologia delle piccole cose entro cui solo si può calare lo studio della vita. La passeggiata, quella che traccia un percorso senza necessariamente risolversi in una meta, avvicina alla terra, dischiude il senso profondo delle creature viventi, una sensualità potente ed inerme che investe chi vi si abbandona per poi costruirsi da capo attraverso la scrittura. La passeggiata è un impegno formativo capovolto che non si affida ad una temporalità lineare e progressiva, come capita nei romanzi di formazione, ma scioglie il viandante in un istante d’estatica dimenticanza per mostrargli, percorrendo il sentiero della dissociazione, l’insensatezza di ogni progettualità esistenziale.

La narrazione è allora sempre e solo narrazione del tempo presente da cui non vi è alcun bisogno di trarre morali, né conclusioni universali poiché tutto il suo significato si esaurisce nell’inafferrabile felicità, nel pieno appagamento, a cui esso dà provvisoriamente accesso. Walser rompe così il ritmo apparentemente regolato ed ordinato del mondo reale, dei concetti e delle nozioni, in cui egli indica piuttosto il sintomo del disordine patologico della modernità, di una inutile complessità. La prosa lirica ed impressionista dello scrittore ne frantuma i pezzi per sostituire all’ artificiosità corrotta, l’autenticità di un banale pregno di senso, polivalente, in cui con trasognata ironia stana sconcertanti profondità nascoste. Walser così riconduce per mano il lettore alle proprie origini, pettinando via alla vita i suoi nodi, i suoi garbugli e restituendole il colore degli alberi, l’ombra del bosco, il profumo dei fiori e dell’acqua, la nostalgia, i rimpianti, il profilo di una donna eterea e lontana che si chiama Felicità e che, fragile, suona del fruscio di foglie secche in autunno.

Qui potete trovare la reensione sul mio canale You Tube:La passeggiata, Robert Walser

 
Claude Monet, La Passeggiata (1875)